«È necessario ascoltare i disabili per le decisioni che li riguardano. Anzi, è necessario un vero e proprio magistero della disabilità». Lo ha rilevato, il mese scorso, una nota della Pontificia Accademia per la Vita pubblicata sul sito dell’Accademia e intitolata «L’amicizia con le persone con disabilità: l’inizio di un nuovo mondo. Imparare dalle esperienze delle persone con disabilità e dei loro caregivers durante la pandemia da Covid- 19». “Imparare”, davvero. Perché la disabilità è una scuola estremamente severa. E per chi ci convive, la pandemia è stata una lezione in più, un’altra barriera da superare: le bocche coperte con le mascherine, le limitazioni negli spostamenti, la distanza di chi normalmente assiste e aiuta hanno reso tutto doppiamente complicato. La “Bbc” ha fatto un’inchiesta su Covid e disabili e ne è emerso un quadro desolante: oltre duemila persone in Gran Bretagna hanno visto la loro disabilità aggravarsi, centinaia non sono riuscite a farsi visitare, molte sono rimaste chiuse in casa, senza poter uscire mai, proprio mai. È solo un esempio, che però fotografa una dimensione condivisa da tanti Paesi, e in tutti i Continenti. Ma è proprio su un terreno tanto difficile che sono nate esperienze di coraggio e rinascita.
«Due volte isolata. Così mi sento da quando è cominciata la pandemia. Tagliata fuori da una duplice barriera sempre invisibile: il virus e la mia sordità. Alla distanza fisica, necessaria per evitare il contagio, s’è sommato il vuoto di comunicazione. Come fare – e questo è solo l’esempio più emblematico – a leggere le labbra, quando le bocche sono tutte coperte dalle mascherine?». Stephanie Brenda Yáñez Galván non è abituata a lamentarsi. Né ad arrendersi. È stata la prima ragazza non udente a laurearsi in Psicologia in Messico. Dopo gli studi all’Università Marista della capitale, insegna all’ateneo LaSalle, è interprete ufficiale della lingua dei segni e operatrice nei pronto soccorso per fare da tramite tra i medici e chi non sente.
È stata un’emozione fortissima», racconta. «Essere una persona sorda non significa essere diversi, differente è solo il modo di comunicare. Quando ero bambina sentivo dentro di me un groviglio di sentimenti che non ero in grado di esprimere. Ho dovuto scoprire piano piano come fare. Per questo ho deciso di diventare una psico- loga, per aiutare le altre persone, non udenti come me, a tirar fuori ciò che hanno dentro. Riuscirci ha significato realizzare un sogno. Se ce l’ho fatta è grazie a quanti hanno creduto in me, soprattutto la preside, Chelo Manero, che mi ha sostenuto. Allora, frequentare l’Università voleva dire rompere un tabù per una persona sorda. Ora per fortuna non è più così. Eppure il Covid mi ha fatto capire quanto ci sia ancora da fare per raggiungere una vera integrazione».
Con la crisi, di colpo, i riferimenti di Stephania sono crollati. La gran parte delle comunicazioni ufficiali sulla situazione sanitaria non sono tradotte nella lingua dei segni. Negli ospedali, tranne rare eccezioni, non ci sono interpreti. «Durante lunghi mesi di restrizioni, non potevo entrare accompagnata nei negozi e non riuscivo a spiegare ciò che volevo. I commessi non mi capivano e io non capivo loro. L’unico canale con il mondo esterno erano i miei genitori. Ho ancor più paura, dunque, che si ammalino. Chi mi darebbe loro notizie? Soprattutto all’inizio, questo senso di incomunicabilità mi provocava un’angoscia terribile. Sono stata molto vicina a prendere dei farmaci, però piano piano sono riuscita a superare il terrore. Certo, ho ancora paura. Ma ho imparato ad affrontarla. E ora cerco di aiutare altre persone sorde a fare altrettanto».