“Io condivido” il blogger Andrea De Chiara condivide: il peso del pregiudizio altrui, si abbatte con la reale inclusione

Sono Andrea De Chiara, ho 34 anni, e vivo in provincia di Milano. Ho una disabilità motoria dalla nascita causata da una mancanza respiratoria al momento del parto. Per questi motivi, la carrozzina è diventata la mia compagna di vita quotidiana. Se dovessi fare un bilancio della mia vita, posso dire che è stata costellata da molti momenti difficili, ma anche da tanta gioia e gratificazione. Senza contare che durante il mio percorso ho avuto diversi cambiamenti a livello psico-emotivo: nel corso dell’infanzia sono sempre stato un bambino sorridente ed espansivo, non ponendomi domande in merito alla disabilità perché faceva parte della mia realtà quotidiana.

Le cose sono cambiate nel periodo dell’adolescenza, età in cui il confronto avviene da un punto di vista prettamente fisico, dove vince il più forte e il più performante. In questo contesto, vivere in una condizione di svantaggio evidente, mi ha portato ad innalzare muri tra me e gli altri. Per non parlare poi del bullismo subito sia da parte dei miei compagni che dagli insegnanti: se da una parte i primi mi affibbiavano epiteti indicibili, i secondi mi tacciavano di essere un buono a nulla per via della mia disabilità motoria. Tutto è cambiato quando ho iniziato a frequentare l’università IULM di Milano, che mi ha reso consapevole del mio potenziale: non solo nel 2013 ho conseguito la laurea in Comunicazione, ma ha avuto inizio la mia carriera in veste di relatore su “disabilità e amore”. Successivamente mi sono cimentato a scrivere articoli per diversi portali e testate giornalistiche sempre sulla disabilità ad ampio raggio. L’esser divenuto un divulgatore in tema di disabilità, oltre a rendermi entusiasta, mi investe di una responsabilità socio-culturale non da poco; basti solo pensare che ancora oggi, mi trovo a dover rompere il preconcetto secondo cui le persone con disabilità siano asessuate (senza cadere nella retorica delle frasi fatte). Principalmente quando mi rivolgo a qualsiasi uditorio per discutere dell’argomento, cerco sempre di farlo in maniera leggera ma con intelligenza.

Al fine di favorire, un clima disteso e l’interazione reciproca, racconto episodi presi dal mio vissuto dove la battuta non manca mai. Lo stesso discorso vale anche quando entro nelle scuole a parlare con gli studenti di bullismo; quando infatti mi interfaccio con questi ultimi lo faccio in stile “chiacchierata tra amici”. Come intuisco che questa è una modalità efficace per invitarli a riflettere? Diciamo che sto presto molta attenzione ai segnali che loro stessi mi rinviano mentre sto disquisendo, che si traducono in una sequela di domande che mi vengono rivolte senza imbarazzo. La chiave per agevolare riuscire ad aprire un dialogo con i giovani attraverso il loro linguaggio, senza mai prendersi troppo sul serio. Inoltre, ciò che mi lascia piacevolmente sorpreso è il momento successivo all’incontro: spesso accade di essere ricontattato tramite i Social da alcuni studenti che mi ringraziano calorosamente per aver condiviso in aula la mia storia di vita e io a mia volta non posso fare altro che ricambiare con molta riconoscenza per aver mostrato tanto interesse e partecipazione.

Negli ultimi anni, sono stati proprio i Social ad essere diventati un ottimo strumento per veicolare la mia visione della disabilità. Oltretutto mi ha dato la possibilità di avvicinarmi maggiormente al mondo giovanile, perfino Tik tok (Social dei balletti acchiappalike) si è rivelato un valido strumento per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo. Ritengo che sia prioritario arrivare agli adolescenti, perchè sono loro il motore di un cambiamento sociale votato alla reale inclusione nel prossimo futuro; questi ultimi, infatti, saranno gli adulti di domani che, se cresciuti in una realtà in cui la diversità è motivo di arricchimento e non di distanza, insegneranno tali valori ai loro figli. Oggigiorno le persone disabili o straniere vengono viste con circospezione dalle vecchie generazioni, perché negli anni ’60 non erano incluse nella nostra società. Paradossalmente, il pregiudizio che attualmente subiscono gli stranieri e le persone con disabilità é lo stesso che i nostri nonni riservavano a coloro che dal sud migravano al nord per cercare lavoro. Fortunatamente oggi non è più così perché questo retaggio culturale è cessato da almeno due generazioni; tale discorso può essere speculare sia per gli stranieri che per le persone con disabilità, solo quando si raggiungerà la reale inclusione ambedue potranno vivere senza sentire il peso del pregiudizio altrui.