Compagnia teatrale “La ribalta”: una bella realtà d’inclusione a Bolzano

Ciao a tutti, è con immenso piacere che voglio presentarvi  il teatro “La ribalta”, una bella realtà di inclusione nata dieci anni fa a Bolzano. La compagnia teatrale è composta da persone con disagio psichico e fisico che grazie ai corsi di formazione Lebenshilfe e al Fondo Sociale Europeo, hanno deciso di diventare attori e attrici professionali. Essi chiedono al pubblico di non essere guardati con occhi o lenti speciali, ma di essere giudicati semplicemente come attori.

Questa è la loro storia

10 anni
«Dieci anni fa nasceva a Bolzano la prima Cooperativa teatrale professionale costituita in maggioranza da uomini e donne in situazione di “disagio psichico e fisico “, nei protocolli definite “persone svantaggiate “. Uomini e donne che hanno scelto, dopo 4 anni di attività di formazione e
creazione, affiancati dalla Lebenshilfe e dal Fondo Sociale Europeo, di diventare attori e attrici professionisti. Lavoratori dello spettacolo a tutti gli effetti. È stata questa scelta una novità importante nel panorama culturale italiano con riflessi diretti anche sulle politiche di inclusione sociale. Questi attori volevano confrontarsi con l’arte del teatro e non chiedevano indulgenze al pubblico, non chiedevano di essere guardati con occhiali e lenti speciali, ma di essere giudicati solo ed esclusivamente per il loro lavoro, la loro “presunta” capacità di comunicare e raccontare, usando gli strumenti che questa arte teatrale gli offriva.


Questa nuova Compagnia teatrale si avvicinava a questo mondo d’arte non con intenti terapeutici,
né tantomeno pedagogici, ma per cogliere il mistero che appartiene all’inesplicabilità dell’arte
mentre la terapia è costretta a fermarsi sulla soglia e rimanda continuamente alla patologia. 
Voleva sfuggire dalla penosa e forzata medicalizzazione che mette continuamente davanti ad ogni
attività svolta da persone svantaggiate la parola terapia: se si va a cavallo è l’ippoterapia, se si ha
un cane è la dog terapia, se si fa teatro è teatro terapia se si suona è musica terapia, come se ogni
attività non fosse in relazione con una persona ma sempre con la sua malattia. Rivendicavano un
luogo dove poter sperimentare, come lo è per ogni altra Compagnia teatrale, questa loro
vocazione e questo possibile talento.
Gli spettacoli creati prima di essere cooperativa accolti e coprodotti dal Festival BolzanoDanza,
hanno trovato subito grandi e importanti consensi di pubblico e di critica e questo faceva ben
sperare per il futuro. Questa Compagnia voleva essere un luogo di incontro dove, attraverso un
contatto intimo e diretto, le persone potevano confrontarsi sul mistero della diversità.  Un luogo
dove ogni persona poteva finalmente e liberamente liberare se stessa nel momento in cui, di
fronte allo sguardo dell’altro, si accorge di ciò che prova, lo riconosce, gli attribuisce significato e lo
condivide trasformando il suo personale ed intimo mistero in comunicazione.  Un luogo dove la sua
potenza e la sua mancanza, le sue luci e le sue ombre potevano essere non solo accettate ma
anche rappresentabili. Un luogo dove al “diverso” viene offerta la possibilità di essere guardato con
curiosità, stupore e ammirazione, senza imbarazzo ne vergogna. Un luogo, come quello del teatro,
che consentiva di togliersi la propria pelle per indossarne un’altra.


 Un luogo che permetteva di prendersi una innocua vacanza, anche se per poco e all’interno del
gioco del teatro (spazio dell’illusione), da quel penoso sentimento del limite personale che lo
sguardo dell’altro rimanda in continuazione ed è, molto spesso troppo difficile da tollerare. Quel
luogo, che chiamiamo teatro, ci è sembrato capace di restituire, con la loro forza poetica, la loro
fragilità, la loro dolcezza, una diversa “diversità”, una forma di emancipazione dalla condizione;
sulla scena, portano sé stessi senza finzioni nella parte che gli viene assegnata, comunicano la loro
completezza e diventano capaci di una speciale sincerità che trasmette emozioni autentiche. Fanno
emergere una dimensione nascosta, segreta e assolutamente poetica che rivendica un permesso di
esistere ancor più pieno di quanto avvenga nel quotidiano.
Questi artisti “diversi” non intervengono solo a “mettere in forma” la comunicazione, ma
costituiscono natura della comunicazione stessa, sostanziandone possibilità e verità.  Non c’è
contenuto e contenitore perché il più delle volte, l’organicità delle loro presenze è tale che fonde
corpo e mente, intenzione e azione, risorse tecniche e contenuti personali. Inoltre hanno un
grande pregio: non hanno quel narcisismo spocchioso che appartiene a tanti attori. Sono molto
ambiziosi nel senso che ambiscono a realizzare quanto gli viene chiesto e proposto. Sono lì sempre
tutti interi e si donano sul lavoro come raramente ho visto in ormai 40 anni di carriera.

Il teatro, che praticano ogni giorno, rende queste persone diverse dalla loro “diversità”, non la
rimuove e non la esibisce e non la consacra: semplicemente il teatro trasfigura la loro realtà in qualcosa di molto più potente. Il teatro li emancipa dalla loro condizione, promuovendone la dignità in quanto persone portatrici di una propria autenticità. In teatro sono portatori di “un mistero”, di una loro personale poetica, portano le ombre e le ferite che fanno nascere e nutrono ogni forma d’arte e anche la vita. Sono portatori di una verità che nutre il teatro e ridisegna i meccanismi di finzione .

Come sempre accade, il dolore, la fatica, la disabilità, il ritardo mentale, la psicosi sono condizioni
di verità, che non lasciano spazio alla mistificazione e se gestite con arte e mestiere, con
consapevolezza, risultano un potente volano di comunicazione teatrale. Rivendicano il diritto di
essere una parte del teatro e non, come spesso accade, un teatro a parte. Quotidianamente, da
ben da 10 anni, lavorano con accanimento per cercare di svelare “bellezza”, inventare nuovi codici
estetici, sconfiggere i pregiudizi che pensano che per i “diversi” la sola pratica possibile sia quella
dell’intrattenimento. Dopo 10 anni, siamo qui a fare un bilancio di quanto questa compagnia è
stata in grado di realizzare e quanto è stata fedele alle sue promesse e scommesse.


Da una parte ci sono dei numeri, che raccontano questa storia. Numeri importanti che raccontano
solo una parte della storia. 18 creazioni complessive (comprese le riprese e gli spettacoli che sono
stato presentati in lingua diversa con formazioni diverse). 704 recite complessive (ricordandosi che
nei 10 anni ci sono stati 18 mesi di Covid che tra chiusure forzate e chiusure causa positività al
Covid di qualche attore, ci hanno fatto perdere almeno altre 41 repliche). 9 paesi europei dove
siamo stati invitati a rappresentare le creazioni. 4 paesi extraeuropei. Inoltre, siamo stati in grado
di realizzare 14 coproduzioni con enti, teatri e Istituzioni in Italia e all’estero. I numeri sono
importanti ma non bastano e non raccontano la qualità di quanto si è fatto. Non è automatico.
Senza volerci autocelebrare, vista la nostra condizione, è necessario ribadire e precisare in
continuazione, in quale cornice etica e politica vogliamo lavorare. In un manifesto da noi
pubblicato dal titolo L’ombra che ride mettevamo in evidenza la cornice del nostro lavoro.
Nonostante, fin dalla nascita, ci siamo definiti una Compagnia teatrale, un soggetto culturale, che
vive grazie a sovvenzioni e contributi provenienti dalle Istituzioni Culturali e dal mercato teatrale,
con una percentuale pari al 89 %. Il restante 11% ci viene attribuita dalle politiche sociali e
nonostante tutto continuiamo a batterci per ribadire che non vogliamo essere un soggetto
“socialmente utile“,  ma un “soggetto “ culturalmente necessario “ . Questo sapendo che, più
riusciremo, attraverso l’arte del teatro e della danza, sconfiggere i paradigmi culturali intorno
all’handicap e dimostrare che si può essere qualcos’altro oltre la propria malattia, più questo agire
ci renderà “Soggetti socialmente utili”.


Fin qui abbiamo raccontato e dato valore a quanto il teatro e l’arte ha arricchito questi attori e
queste attrici. Vorrei spendere le ultime mie parole per girare la lente e capovolgere il racconto:
quanto si è arricchito il teatro dalla presenza di questi attori/di/versi. Il teatro ha bisogno di tutto
quello che la nostra società sembra espellere.  Il teatro ha bisogno delle ferite, di dialogare con “la
faccia nascosta della luna”, Non può essere sole splendente che illumina tutti allo stesso modo ma
ha bisogno degli anfratti, degli angoli oscuri del turbamento che crea l’inatteso.
Per questo, da tempo, vediamo il teatro come un ospedale che cura le nostre anime, le nostre
paure e le nostre ferite. Un ospedale dove non si guarisce, ma dove quelle ferite e quelle paure
vengono viste, riconosciute e svelate. Così di conseguenza prendono un senso, diventano
coscienza e visione. Ma in quel ospedale si entra per essere infettati, contagiati. Come per i
vaccini: si introduce la malattia perché il corpo sia in grado di proteggersi, attivando gli anticorpi e
immunizzarsi, o meglio, umanizzarci. La malattia è la cura. Oggi la diversità è anche un mercato:
un mercato per tanto buonismo a prezzi stracciati, con la pornografia del dolore di alcune
trasmissioni televisive che alimenta un diffuso e preoccupante voyerismo della sofferenza.

Ma se il teatro è capace di uscire da questo sfruttamento pietistico, se esce dalla ovvietà televisiva,
se è capace di accogliere altri percorsi creativi, nuovi sguardi e nuove professionalità, se è capace
di combattere la dittatura dell’Uguale e del Normale, darà un contributo essenziale ad una nuova
cultura dell’inclusione. Quello che chiamiamo teatro sociale d’arte è capace di rompere i confini
della sofferenza per esprimere bellezza, benessere e felicità. Perché nel Dif/ forme c’è un balzo
misterioso, una magia, una deformazione estetica che si sposa con l’etica civile. Il teatro, che è
sempre stato il posto dove il mostruoso è di casa quando accetta sulla scena le più svariate
sproporzioni, le deformità, le assimmetrie fisiche e mentali, ci permettere di ritrovare l’Umano, quel
umano che è fatto delle nostre paure e delle nostre fragilità, delle nostre arroganze e della
violenza del potere, questo teatro, per noi necessario, ci ricorda che siamo tutti malati. Quando ci
chiedono” perché ci occupiamo d’arte, la nostra risposta la rubiamo a Grotowski e ci calza a
perfezione e sembra scritta proprio per noi.
Per abbattere le nostre frontiere
Trascendere i nostri limiti
Riempire il nostro vuoto
Realizzare noi stessi.


Antonio Viganò
Direttore artistico